Mondiali del Qatar, equilibri geopolitici e grandi eventi sportivi: quando per cambiare la propria reputazione non bastano le buone intenzioni

Una competizione funestata da fortissime polemiche politiche. Ancor prima del fischio di inizio, tra sospetti di corruzionemorti bianche per la costruzione delle infrastrutture e violazioni dei diritti umani, una pioggia di proteste si era, infatti, abbattuta sul più grande spettacolo al mondo.

FB Bubbles, la divisione di FB&Associati specializzata in analisi del dibattito pubblico e strategie di advocacy, riflette in questa sede sullo “sport-washing” e sulla sua efficacia. Prendendo spunto dai Mondiali viene discusso il fenomeno, illustrate le reazioni, nel più ampio scenario storico dell’uso politico dello sport.

Negli ultimi 2 mesi i Mondiali sono stati protagonisti del dibattito pubblico con 630 mila menzioni realizzate da 53 mila autori unici per un volume di engagement di quasi 8 milioni di interazioni. I 500 mila tweet pubblicati (2 milioni di interazioni) rivelano un attivismo sportivo e sociale da parte del popolo di Twitter. La piattaforma dei cinguettii conferma, infatti, la propria capacità non solo di seguire in tempo reale quanto accade offline ma anche di dettare i trend delle conversazioni online.

 La principale accusa che viene mossa al Qatar è di aver architettato e realizzato una manovra di “sport-washing”, letteralmente di aver, per lo meno provato, a ripulire la propria immagine di Stato nemico dei diritti umani, sfruttando lo sport per rendere tale immagine accettabile agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, e soprattutto europea.

Nelle attività di sport-washing, dunque, lo sport viene utilizzato come mezzo di manipolazione delle informazioni nel tentativo di ripulire la reputazione dello Stato o dell’ente che lo patrocina. Questa attività non si limita alla sola realizzazione della Coppa del Mondo, si estende a diversi investimenti compiuti dal Paese nel mondo del calcio e non solo. Per gli aspiranti sport-washers, tutto si basa sul è il ruolo chiave dello sport nello screditare e nel disperdere contenuti potenzialmente dannosi per il Paese, capaci di raggiungere un pubblico globale. Ad esempio, nel 2014 un canale di notizie britannico ha scoperto non solo che il Qatar aveva assunto una società globale di pubbliche relazioni, la Portland Communications, per attivare un’attività di “spin” sulle notizie negative riguardanti la Coppa del Mondo, ma sembra che avesse anche una rete di hacker criminale con sede in India che aveva violato le e-mail di politici e commentatori critici della Coppa del Mondo in Qatar.

Come notano diversi commentatori nazionali e internazionali, spesso campagne di questo tipo risultano vincenti. In primis, per l’enorme quantità di denaro per organizzare eventi, la corsa degli sponsor e l’obiettivo di attirare una grossa fetta di turisti provenienti dall’Europa. Inoltre, è importante tenere conto della tipologia di pubblico cui è diretto lo sport-washing: i tifosi non sono necessariamente sensibili a tematiche non strettamente legate alla competizione e spesso restano infastiditi dalle “interferenze” nella fruizione delle performance sportive.


Le proteste odierne trovano le loro radici nella decisione del 2010 di determinare in una volta sola – cosa mai accaduta prima – quali Paesi avrebbero ospitato le edizioni dei Mondiali del 2018 e del 2022. Tra i diversi candidati, Stati Uniti e Regno Unito presentarono le proposte più idonee rispetto ai requisiti indicati dalla FIFA, sotto diversi punti di vista, dalle infrastrutture sportive ai servizi per giocatori e tifosi: la nazione ospitante deve, infatti, possedere almeno 12 stadi con capienza di 40.000 persone e almeno 72 hotel per squadre e arbitri (oltre a 4 hotel in prossimità degli stadi) e nel 2010 il Qatar non soddisfava gli standard. Per questo motivo fu una grossa sorpresa l’assegnazione a Russia e Qatar di queste edizioni. Ancor di più visto che, appena due mesi prima che la FIFA annunciasse le città ospitanti, l’organizzazione sospese due membri del suo Comitato esecutivo con l’accusa di essersi offerti di vendere i propri voti. 

Se la Coppa del Mondo FIFA 2018 in Russia ha sollevato preoccupazioni, principalmente, sul rapporto intimo tra FIFA e governanti autoritari come il presidente russo Vladimir Putin, le motivazioni alla base delle proteste per questa l’edizione che si sta svolgendo oggi in Qatar sono differenti.  La più discussa è legata ai riflessi che questa iniziativa ha avuto sulle già precarie condizioni dei lavoratori immigrati del Qatar che, mentre venivano intensificati i preparativi per la Coppa del Mondo, sono diventate sempre più letali ed evidenti agli occhi dell’opinione pubblica globale. Dal 2010, infatti, secondo il Guardian, più di 6.500 lavoratori provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti in Qatar.  Ma non mancano le critiche al regime illiberale nella sfera dell’inclusione e dei diritti umani, soprattutto per ciò che riguarda i diritti della comunità LGBQT+ in Qatar.

Per queste ragioni le reazioni sono arrivate, seppur solo in determinati e circoscritti contesti, anche dal mondo dello sport. Attraverso piccoli gesti simbolici, giocatori e fan hanno reso pubblica la loro volontà di parlare delle controversie del torneo.  Un gruppo di federazioni calcistiche europee, tra cui Inghilterra, Germania e Francia, ha annunciato a settembre l’intenzione di far indossare ai capitani delle loro squadre fasce arcobaleno o con la scritta “One Love durante le partite per protestare contro il trattamento riservato dal Qatar ai cittadini LGBTQ.  Nel frattempo, tra gli sponsor tecnici delle nazionali, la formazione danese ha svelato un design “attenuato” per le proprie uniformi sbiadendo i dettagli e il logo del brand (decisione presa dopo il veto della FIFA di indossare maglie riportanti il claim diritti umani per tutti”), per sottolineare in maniera implicita l’opposizione della squadra al maltrattamento dei lavoratori migranti da parte del Qatar. Anche diverse grandi città francesi hanno annunciato che non istituiranno “zone dedicate ai tifosi” per consentire agli spettatori di guardare le partite in pubblico, come è stato fatto negli anni precedenti. 

Cambierà questa situazione in futuro? Dalle deboli parole di Gianni Infantino, distaccate dalla realtà, sembra proprio di no. Anzi, in seguito alle parole del Presidente della FIFA, sono state proprio le squadre ed i giocatori ad individuare nuove forme di protesta.  

I giocatori della Germania, per esempio, durante la loro prima partita hanno scattato una foto di squadra che ritraeva tutti gli 11 giocatori titolari intenti a coprirsi la bocca in segno di protesta – immagine che commentatori come Riccardo Cucchi su Twitter (11.088 interazioni) hanno soprannominato “la sconfitta di Infantino”.  ”Potranno toglierci le fasce, ma non ci toglieranno mai la voce“, ha detto il portiere Manuel Neuer. “Sosteniamo i diritti umani. Questo è ciò che volevamo dimostrare. La FIFA può averci messo a tacere sulla fascia di capitano, ma difenderemo sempre i nostri valori“. 


Come dimostra il passato della Coppa del Mondo, le polemiche e le proteste sono una costante che troviamo lungo tutta la storia del torneo.  Ma esaminiamo quelle più pertinenti. 

La prima edizione in cui la FIFA è stata coinvolta in un’attività di “sport washing” è stata l’edizione Argentina del 1976. Il Paese era allora governato da una giunta militare guidata dal dittatore Jorge Rafael Videla, accusato di aver ucciso e fatto sparire migliaia di persone. Gli esuli argentini e il mondo democratico e liberale ne chiesero a gran voce il boicottaggio. Il torneo si è svolse come previsto, ma fu la prima volta in cui le voci dei manifestanti si fecero sentire in tutto il mondo e in cui la campagna di boicottaggio fu abbastanza ampia. Anche se in pochi se lo ricordano – soprattutto noi italiani, per ovvi motivi – i Mondiali di Germania del 2006 sono stati un’altra edizione caratterizzata dalle proteste contro un solo Stato. In questo caso fu l’Iran il bersaglio di fan e attivisti della giustizia sociale. La richiesta di espulsione dell’Iran dal torneo è stata provocata dai commenti dell’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, il quale affermò che “Israele avrebbe dovuto essere trasferito in Europa”. Un’altra edizione ha suscitato una protesta internazionale per il trasferimento forzato di decine di migliaia di cittadini poveri e della classe operaia per far posto a nuove infrastrutture legate ai tornei: la Coppa del Mondo 2014 in Brasile. Le proteste dei cittadini contro la Fifa ei Mondiali si sono concentrarono anche sugli investimenti del Brasile per l’evento, ritenuti ben più massici di quelli previsti per i cittadini. 

La valenza simbolica dei Mondiali e la loro spendibilità nella politica internazionale emergono chiaramente non solo mandando in fumo l’antica idea che “lo sport non si debba mescolare con la politica”, ma anzi rivelando il plastico connubio tra sport e politica. È evidente che dinamiche e condizioni siano variabili da caso a caso. Quello del Qatar è indubbiamente difficile e proprio per questo, a differenza di tante altre occasioni, qui si parla di scandalo. Agli occhi dell’opinione pubblica europea e occidentale, è una monarchia retta dal denaro, tra i Paesi in cui la dissidenza e l’opposizione non esistono, così come i diritti delle donne e delle minoranze. Ma al contempo attraverso lo sport è la stessa Europa a concedere ampi spazi di visibilità a Paesi ampiamente criticati per le loro pratiche poco democratiche. Dunque, questa campagna di sport-washing sta funzionando?  

Sembrerebbe di no. Partendo dal presupposto che oggi il mondo del calcio sta vivendo una significativa crisi reputazionale, questa vicenda più che ripulire l’immagine del Qatar sembra avere un duplice risvolto negativo: aver peggiorato lo stato dell’arte della reputazione del mondo sportivo, e aver avuto un effetto moltiplicatore – quasi come una cassa di risonanza – sul caso del Qatar, soprattutto se si considera che l’apertura della Fifa a questi Paesi è sintomatica di una incrementata necessità di risorse, che oggi quasi solo questi Stati possono garantire. A supporto di questa ipotesi arriva uno studio pubblicato sul The New Arab che ha tentato di analizzare la copertura giornalistica della Coppa del Mondo del Qatar. Sulla base di una sezione trasversale dei giornali britannici, ha concluso che la copertura era “abbondantemente negativa“, con pratiche di lavoro abusive e violazioni dei diritti umani sotto i riflettori. Si scopre così che la Coppa del Mondo non ha cercato di coprire i cosiddetti “contenuti dannosi” del proprio Paese, come si potrebbe credere, ma li ha probabilmente incentivati. Anche prendendo in esame il dibattito online, le conversazioni tematiche presentano un tone of voice prettamente negativo (circa il 40%) confermando, di fatto, la sensazione secondo cui – per lo meno in questo momento – i Mondiali stiano ponendo il Qatar sì sotto i riflettori ma per le dinamiche meno virtuose. Atteso che solo il tempo potrà stabilire se gli sbalorditivi investimenti del Paese negli ultimi dieci anni ripagheranno in termini di reputazione, è chiaro tuttavia che il più recente scandalo che ha visto coinvolto il Qatar, sospettato di ingerenza e corruzione nella politica Ue, pone un’ipoteca seria sulla possibilità nel breve di migliorare la proiezione internazionale del paese. L’inchiesta delle autorità belghe ai danni di alcuni eurodeputati e dei relativi collaboratori getta infatti nuove ombre sul regime di Doha e più in generale su quei gruppi d’interesse nazionale dell’area medio orientale, che con l’ausilio di fondazioni, think tank e organizzazioni non governative e passando per i centri finanziari offshore, si adoperano nella public diplomacy.