L’evoluzione green dello scenario politico italiano. L’intervista al prof. Grimaldi

1) I risultati ottenuti dalle formazioni verdi in occasione delle europee 2019 sembrano segnare un punto di svolta nella storia recente dell’ecologismo politico continentale. Se tuttavia il quadro soggettivo, la capacità e la forza dell’ecologismo politico italiano, appare negativo, quello oggettivo, relativo cioè alle condizioni di scenario macro, è invece molto positivo. Si spiega così la competizione in corso in Italia per conquistare questo spazio politico, che vede protagonisti il Movimento 5 Stelle targato Conte, personalità come il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ed esponenti dell’ambientalismo storico come Rossella Muroni e Angelo Bonelli. A quali condizioni tali iniziative possono riscuotere successo, allineando il sistema politico italiano alle tendenze elettorali europee?

È difficile fare delle previsioni in un panorama politico così caotico come quello italiano. Al momento però queste iniziative ecologiste sembrano ancora modeste e legate ad alcune personalità o a componenti politiche ancora in divenire. Europa Verde, unica forza ecologista italiana di dimensione nazionale appartenente al Partito verde europeo (altro partito membro sono I Verdi del Sudtirolo – presenti in Alto Adige laddove nacque nel 1978 la prima lista antesignana delle liste verdi), fatica a uscire da una situazione che ha caratterizzato il lungo declino dei Verdi italiani dopo un loro iniziale successo. Non è possibile fare paragoni con altre realtà nazionali dove sono presenti sistemi politici con regole molto diverse e culture e storie specifiche. C’è però da notare che in Italia, a fronte di sviluppo dell’ecologismo nella società civile (con associazioni, movimenti, iniziative e diversi esponenti che hanno contributo autorevolmente alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente e alla crescita di una consapevolezza ecologica), in ambito politico le divisioni tra ecologisti hanno finito spesso per prevalere e ostacolare la crescita di una forza politica autonoma (già di per sé difficile e in parte osteggiata anche dalle associazioni ambientaliste, o perché protese a rivolgersi a tutte le forze politiche, o per contrapposizioni su specifiche questioni). La Federazione dei Verdi, sin dalla nascita, ma soprattutto dopo la confluenza dei Verdi Arcobaleno (aggregazione composta soprattutto da radicali e demoproletari), ha subito il forte condizionamento di altre culture politiche al suo interno, tradottosi in lotte intestine tra i sostenitori di esse. Questo è stato uno degli ostacoli che ha impedito ai Verdi di mantenere un loro iniziale slancio di forza politica fresca, innovativa, promotrice di un nuovo modo di fare politica e di un’etica della politica e di cogliere opportunità apertesi con la crisi della Prima Repubblica, nonché di effettuare scelte politiche chiare su temi rilevanti di politica nazionale, nonostante il successo del referendum per l’abbandono del nucleare e l’approvazione di diverse leggi emanate per la protezione ambientale. Dopo esperienze di governo locale, nel corso degli anni Novanta i Verdi italiani sono divenuti forza di governo nazionale all’interno dell’alleanza dell’Ulivo (nata per divenire una federazione delle forze di centro-sinistra unendo diverse culture politiche, ma poi arenatasi) e poi in altre coalizioni nell’area del centro-sinistra, costringendoli però in un ruolo secondario intrappolato, elettoralmente e ideologicamente, tra i partiti eredi della sinistra storica, indebolendone le capacità di espansione e interlocuzione a più vasto raggio (per una disamina della storia della Federazione dei Verdi dalle origini agli ultimi anni si veda: Giorgio Grimaldi, I Verdi italiani tra politica nazionale e proiezione europea, Bologna, Il Mulino, 2020 https://www.mulino.it/isbn/9788815291080). In realtà i Verdi, nonostante diversi tentativi anche significativi, non sono riusciti ad aprirsi in modo convincente alla società uscendo dall’ambito ristretto e conteso della sinistra alternativa. Perché un soggetto politico verde possa diventare guida e riferimento di una conversione ecologica della società occorre un ampio sforzo di aggregazione uscendo dai vecchi schemi destra-sinistra, coltivando le differenze e l’incontro tra le diversità, condividendo un progetto più ampio e condiviso, promuovendo educazione, cultura, consapevolezza e lavorando ad una trasformazione unendo le forze, anziché disperderle e contrapporle in uno spazio politico limitato ed autoreferenziale. Tutto questo è stato sempre tremendamente difficile nel nostro paese, dove tra l’altro l’accesso degli ecologisti alla comunicazione politica è risultato carente, soprattutto dopo l’avvento del bipolarismo e della concentrazione di potere nel settore dei mass media. Oggi v’è l’occasione e l’urgenza di unirsi intorno alla visione di ecologia integrale indicata dall’enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco e di uscire dalla logica nazionale per costruire un’Europa federale e contribuire alla transizione ecologica globale: a questo riguardo è fondamentale dotarsi di strumenti e capacità democratiche per migliorare il bene comune e gestire l’interdipendenza globale abbandonando visioni nazionalistiche e rinnovando gli attuali asfittici partiti. I Verdi europei hanno sviluppato un’identità di forza federalista che lotta per un’Europa democratica e per affermare una politica ecologica a livello globale capace di reindirizzare l’economia e la società verso uno sviluppo ecosostenibile. Credo che questa visione ecologista costituisca una prospettiva costruttiva per una conversione ecologica anche in Italia. Attorno ad essa potrebbe svilupparsi una coalizione ecologista popolare (non solo verde), al centro della politica, né di destra né di sinistra, ma “centrale” con la sua azione. Per fare questo occorrerebbe però un’apertura molto di ampia nei confronti della società civile, del mondo della cultura e dell’educazione evitando posizioni radicali e pertinenti a culture che non necessariamente sono riconducibili all’ecologismo e che hanno teso a coniugarlo con altre rivendicazioni allontanando diversi potenziali sostenitori. Bisognerebbe ispirarsi soprattutto ad Alexander Langer, eurodeputato verde, ecologista, costruttore di ponti per la pace e traditore della compattezza etnica (e ideologica), concentrando le energie, avvicinando le persone alla politica e costruendo coalizioni più ampie per dialogare e costruire una nuova prospettiva di politica ecologica (sulla figura di Langer rimando alla Fondazione Langer Stiftung, https://www.alexanderlanger.org/it e tra le biografie a quella di Marco Boato: Alexander Langer costruttore di ponti, Brescia, La Scuola, 2015). Ci sarebbero tanti punti di contatto, ad esempio, tra ecologismo e cristianesimo democratico (oggi disperso in tanti rivoli), partendo proprio dalla Laudato sì, cooperando su obiettivi comuni. Spero che Europa Verde come progetto evolva in questa direzione. Il Movimento 5 Stelle, pur recependo istanze ecologiste, è un soggetto politico differente, che deve scegliere che cosa vuole diventare: è un esperimento in cerca di identità, la cui genesi e il collegamento con “la rete” e l’invocata democrazia diretta, attraverso il controllo operato da una società informatica di consulenze e comunicazione, lascia aperti molti dubbi e dilemmi. Nel Parlamento europeo, dopo diversi anni di permanenza, il M5S non è ancora riuscito a trovare una collocazione in una famiglia politica europea, dopo essersi unito inizialmente ad un gruppo politico eterogeneo costituito da prevalenti componenti euroscettiche. Solo pochi eurodeputati, abbandonando il M5S hanno aderito al Gruppo Verdi/Alleanza Libera Europea del Parlamento europeo (il gruppo che dal 1999 unisce gli eletti ecologisti e regionalisti).

2) Nonostante il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) proietti al centro dello scenario politico la transizione ecologica e la cosiddetta rivoluzione verde, i principali interpreti di questo spettro di istanze continuano ad essere le forze di centro-sinistra italiane. Sono maturi i tempi per un’evoluzione in questa direzione delle forze di centro-destra? L’operato del ministro Cingolani e per estensione del Governo Draghi in che modo è destinato ad incidere sul confronto interno alla «maggioranza» e all’universo ambientalista?

I segnali non sono incoraggianti, anche se tra le forze di centro-destra vi sono stati casi di attenzione nei confronti della transizione ecologica. D’altra parte non è che a sinistra e nel centro-sinistra sia presente una chiara ed inequivocabile identità ecologista: atteggiamenti molto ambigui o di comodo convivono a fianco di genuine istanze ecologiste. Il “verde” è un colore che quasi tutti tendono ad inserire nel loro profilo politico perché nella comunicazione oggi è di tendenza. Il dialogo e il confronto tra le forze politiche potrebbe aumentare la condivisione di scelte importanti riguardanti la transizione ecologica anche nel centro-destra. Esiste peraltro un ecologismo nato su iniziativa di esponenti di destra (ad esempio l’associazione Fare verde), anche se molto meno sviluppato rispetto a quello di sinistra. La polarizzazione e la contrapposizione ideologica a prescindere dai problemi concreti da affrontare spesso paralizzano la nostra democrazia e il possibile incontro su progetti condivisi di forze politiche diverse. Per ritornare al bene comune e ad una politica di servizio, impegnata anche a promuovere educazione e conoscenze e a proporre un progetto di società piuttosto che a inseguire il consenso elettorale, è cruciale portare avanti una conversione ecologica. Il Governo Draghi, oltre a costituire nell’attuale momento di crisi globale multidimensionale ed ecologica l’occasione e il tentativo urgente per l’Italia di rigenerarsi e di inserirsi in un percorso di rafforzamento dell’Unione europea, chiamata a sua volta a uscire da una situazione di stallo nonostante la capacità manifestata nella crisi pandemica di trovare un’azione comune (quanti però sono ancora i costi di una mancata Unione federale che permetterebbe di arginare con poteri e decisioni comuni più efficaci le crisi e le emergenze!), può rappresentare un importante momento di condivisione e di attuazione di scelte per generare una maggiore coesione politica nazionale ed europea. È troppo presto per fare valutazioni: il “vecchio” e il “nuovo” si stanno confrontando aspramente su molte questioni: il PNRR, come anche diverse prese di posizione del Ministro Cingolani, hanno destato molte perplessità tra gli ecologisti. Ritengo che le critiche ecologiste sull’insufficienza di diverse misure siano largamente condivisibili e sarebbe importante che venissero ascoltate e soprattutto che, in corso d’opera, nella realizzazione del PNRR si tenga conto delle modifiche da apportare. Vi è un problema di fondo da tenere presente: la politica attuale, a tutti i livelli, è di fronte a un bivio. Per attuare una vera conversione ecologica è necessario fare scelte molto impegnative delle quali è ancora incerto l’impatto. Tuttavia, il rischio che si cerchi di ridurre o evitare i costi dell’abbandono progressivo dei combustibili fossili e di riuscire a cavarsela nel breve termine con provvedimenti troppo blandi per portare a cambiamenti incisivi è molto alto. Molti interessi spingono per continuare ad appoggiare il paradigma culturale della “crescita” proponendo di coniugarla con un’azione ecologica: oggi questa visione di “sviluppo sostenibile” si rivela palesemente insostenibile se si guarda all’impronta ecologica, al sovrasfruttamento delle risorse e dei servizi ambientali (molti dei quali non riescono a rigenerarsi completamente) e alle conseguenze del cambiamento climatico. Al di là della destra e della sinistra è necessario programmare un piano di sicurezza per affrontare le gravi ripercussioni già in atto che stanno aggravando fenomeni di degrado ecologico, diseguaglianze, povertà. La transizione ecologica non può che essere un processo da gestire in maniera coordinata e integrata, multidimensionale, con istituzioni di governo globali e con politiche collegate e interdipendenti a livello nazionale e locale. In concreto, l’Unione europea può indicare la strada con le iniziative politiche che ha assunto (per una proposta chiara di carbon tax per la COP 26 che l’Unione europea potrebbe intraprendere per rinforzare il Green Deal europeo e spingere il sistema globale verso gli obiettivi dell’Accordo globale sul clima di Parigi del 2015, si veda Alberto Majocchi, Per una strategia europea efficace nella COP26, Centro Studi sul Federalismo, Commento n. 224 – 6 luglio 2021 http://www.csfederalismo.it/it/pubblicazioni/commenti/1611-per-una-strategia-europea-efficace-nella-cop26). “Unirsi o perire”: sembra uno slogan ma è invece un importante monito che punta a responsabilizzare tutti per cercare di comprendere insieme come perseguire il bene comune, di lungo periodo, intergenerazionale e per contenere il degrado ecologico che erediteranno le generazioni future, cercando al contempo di rendere questa transizione per quanto possibile equa e sopportabile. Dobbiamo però rinunciare al superfluo, agli sprechi, alle scelte di conservazione che portano a benefici di breve durata continuando ad accumulare debiti e rifiuti per i posteri. L’economia circolare può essere sostenibile solo se si punta veramente a ridurre l’impatto umano sul pianeta, ad assumersi i costi sociali ed economici senza trasferirli a paesi e comunità più deboli e povere, ad eliminare i consumi nocivi per l’ambiente e la salute umana e a gestire e redistribuire oculatamente le risorse, tenendo conto che molte di esse si stanno rapidamente esaurendo. Innovazione scientifica e tecnologica sono importanti ma non sufficienti: è necessario promuovere stili di vita, produzioni, consumi e mobilità ecosostenibili ed evitare l’illusione che il solo progresso scientifico possa consentire il mantenimento dello status quo. In questo contesto planetario, tornando ad uno scenario più ristretto, gli ecologisti e il Governo Draghi confrontandosi seriamente possono aiutarsi a vicenda: i primi, proponendosi direttamente come attuatori del cambiamento; il secondo aprendosi ad una maggiore interlocuzione e valorizzazione dell’ecologismo e, in generale, anche della società civile, sospingendo ad una maggiore cooperazione i partiti che lo appoggiano, spesso chiusi nei loro giochi di potere.

3) Il 14 luglio la Commissione ha presentato il Green Deal europeo. I magniloquenti propositi che precedono e accompagnano quella che vorrebbe essere la grande riforma ambientalista dell’Unione europea si scontrano con una realtà politica macchinosa, dominata dalla Germania. Le elezioni federali tedesche rappresentano, quindi, sotto molti punti di vista, compreso quello ambientalista, un appuntamento centrale per l’Europa. Quali conseguenze può avere, sull’agenda comunitaria, un ingresso dei Grünen nella compagine di Governo? Qual è la «ricetta» del loro successo?

Il Green Deal europeo (https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it) rappresenta una grande speranza, ma l’Unione europea è ancora debole ed è chiamata a rafforzarsi per contrastare un declino nell’ambito di una politica internazionale dove attori globali e regionali ridefiniscono sempre più rapidamente le loro aree di influenza. L’Unione europea dovrà dotarsi di una politica estera autonoma e unica se vorrà avere un ruolo nell’affrontare le sfide globali. Per questo è quanto mai urgente riformarne le istituzioni congelate dopo l’ultimo travagliato processo di riforma che ha portato al Trattato di Lisbona, soprattutto eliminando il diritto di veto che impedisce l’assunzione di decisioni e dotando il Parlamento europeo di poteri in tutte le politiche comunitarie. L’attuale Conferenza per il futuro dell’Europa dovrebbe essere l’occasione per spingere ad un cambiamento, non riducendosi ad un dibattito senza ricadute effettive. Lungo questo cammino le attese elezioni tedesche del prossimo settembre, dovrebbero riportare il Bündnis ‘90/Die Grünen (i Verdi tedeschi), il partito ecologista più noto e rilevante a livello globale, al governo del paese, probabilmente come partner in coalizione con i cristiano-democratici (i partiti dell’Unione dei cristiano democratici tedeschi – CDU – e dell’Unione dei cristiano-sociali della Baviera – CSU) che rimangono nei sondaggi il primo partito nel paese, in un contesto completamente diverso da quello precedente (il periodo di governo federale rosso-verde tra socialdemocratici e verdi tra il 1998 e il 2005 che vide imporsi come figura carismatica il vicecancelliere e Ministro degli esteri verde Joschka Fischer). Dopo periodi altalenanti di successo e di crisi nella loro più che quarantennale esistenza, i Verdi tedeschi sono mutati riuscendo dopo anni di forti tensioni e contrapposizioni a creare una certa “unione nella diversità”, pur predominando nel partito la componente dei Realos (realista, pragmatica, riformatrice e disponibile al confronto con gli altri partiti sui contenuti programmatici). I Verdi sono divenuti progressivamente un partito ecologista riformista, pur con alcune istanze radicali e specifiche, con una sempre maggiore diffusione nella società (anche se molto diseguale, ottenendo ancora oggi un maggiore consenso nelle aree urbane e industrializzate rispetto a quello raccolto in quelle rurali e nei Länder orientali), consolidata attraverso numerose esperienze di governo locale e regionale tra le quali spicca quella esemplare e di successo del Baden-Württemberg, dove i Verdi sono dal 2011 il primo partito (con il 32,6% dei voti raccolti nel 2021) grazie alla popolarità di Winfried Kretschmann, politico carismatico e di lungo corso, cattolico e di orientamento conservatore, capo del governo di quel Länder prima al vertice di una coalizione con i socialdemocratici e poi con i cristiano-democratici (per una storia dei Verdi tedeschi si veda: Giorgio Grimaldi, I Verdi in Germania. L’ecologia in politica dai movimenti all’Europa, Roma, Associazione Universitaria di Studi Europei, 2020, http://ause.eu/public/medias/Grimaldi_I_VERDI_IN_GERMANIA.pdf). Percepiti quindi come riformisti e innovatori i Verdi, grazie ad un approccio pragmatico e ad esperienze di governo e di opposizione, hanno visibilmente accresciuto negli ultimi dieci anni i loro consensi e, con una candidata cancelliera, Annalena Baerbock, si apprestano probabilmente a ritornare all’interno di un governo di coalizione a livello federale, con la volontà di promuovere un deciso orientamento europeista teso a rafforzare le istituzioni dell’UE, la tutela dei diritti umani e dell’ambiente e, in particolare, a potenziare una politica estera europea volta al multilateralismo e alla cooperazione transatlantica piuttosto che a mantenere relazioni economiche con la Russia portate avanti negli ultimi anni con il progetto di gasdotto Nord Stream. Da partito neutralista rispetto ai due blocchi e pacifista durante la Guerra fredda e fortemente critico nei confronti delle Comunità europee, i Verdi tedeschi hanno mutato radicalmente le loro posizioni negli anni Novanta. Nel 1999 Joschka Fischer decise di sostenere la guerra del Kosovo della NATO contro la Serbia sostenendo un duro confronto con una parte consistente del suo partito e, nel 2000, si fece artefice di un dibattito per il rilancio dell’integrazione europea con il celebre discorso “Quo vadis Europa?”, importante per lo sviluppo del tentativo di approvare un Trattato costituzionale europeo poi fallito nel 2005. Fautori della digitalizzazione e di un nuovo ruolo dello Stato per dare sicurezza sociale, economica e sanitaria ai cittadini, impegnati nella chiusura progressiva delle centrali nucleari e nello sviluppo di una transizione ecologica ed equa fondata sulle energie rinnovabili, i Verdi tedeschi sono adesso nuovamente chiamati ad una prova decisiva. Questa volta la sfida è ancora più ardua che in passato: sono molte le speranze suscitate e gli impegni da assolvere per una forza politica che ha effettuato un lungo rodaggio ma che si trova ad affrontare compiti articolati e complessi insieme ad attori politici molto diversi, pronti a sfruttare anche le loro debolezze. Certamente la sfida ecologica rende oggi i Verdi un partito di “forte attualità”, in una delicata posizione, un partito che è ancora in parte diverso dai partiti tradizionali (ad esempio, con una leadership ad ogni livello composta da un uomo e una donna), che può essere anche elemento di collegamento e rinnovamento per una collaborazione tra i partiti che condividono una prospettiva di democrazia inclusiva, sovranazionale e cosmopolita rispetto alle forze nazionaliste e populiste (anche se sul significato di questi termini ci sarebbe a lungo da discutere per chiarirne la portata in quanto nazionalismo e populismo sono tendenze che possono essere riscontrabili in diverse occasioni e contesti all’interno dei più vari soggetti politici). Condividendo la guida del principale paese europeo, i Verdi tedeschi potrebbero riuscire a realizzare una maggiore coesione dell’Unione europea e il rilancio di un ecologismo politico europeo in vista delle difficili sfide future. Molto sarà determinato dalla forza effettiva raggiunta in Germania e dalla capacità di utilizzarla costruendo insieme alle altre forze politiche un progetto di ricostruzione sociale ed ecologica mai tentato, nel rilanciare un asse franco-tedesco e nel far riprendere il cammino verso una federazione europea riformando istituzioni e politiche dell’Unione europea e affrontandone anche la stabilizzazione dei confini (le questioni aperte con la politica di vicinato e l’allargamento ai Balcani occidentali). La crescita dei Verdi tedeschi, probabile ma da verificare al termine dello spoglio del voto nazionale del prossimo settembre (non di rado, infatti, soprattutto i pronostici nelle elezioni federali sono risultati ottimistici per i Verdi rispetto al consenso effettivo raggiunto), è frutto non tanto di una “ricetta” specifica ma di una “lunga marcia nelle istituzioni” (come diceva il leader studentesco del ’68, Rudi Dutschke, poi tra i promotori dei Grünen), dopo difficoltà, cadute e rinascite. L’affermazione dei Verdi è avvenuta con un percorso lento, laborioso e costante di studio, dibattito, confronto e azione all’interno del sistema politico e nella società, volto a trasformarla per renderla ecologicamente sostenibile che è risultato espressione di esigenze politiche concrete, scaturito “dal basso”, dopo anni di azioni di movimenti civici, ambientalisti e antinucleari.

Giorgio Grimaldi è professore associato di Storia delle relazioni internazionali alla Link Campus University di Roma e docente presso l’Università eCampus. Dottore di ricerca in Storia del federalismo e dell’unità europea (Università di Pavia), ha collaborato con il Centro studi sul Federalismo, è stato assegnista di ricerca presso l’Università di Torino, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e l’Università di Genova, docente a contratto all’Università della Valle d’Aosta e negli atenei di Torino e Genova. È autore di diverse pubblicazioni sulla storia dell’integrazione europea e sull’ecologismo