Il primo test del Governo Meloni. Le regionali in Lazio e Lombardia

Le elezioni regionali di Lazio e Lombardia del 12 e 13 febbraio sono state per FB Bubbles – divisione di FB&Associati specializzata in strategie di advocacy e analisi del dibattito pubblico – occasione per riflettere assieme a Fabio Bistoncini, Presidente e Fondatore di FB&Associati, e a Pietro Raffa, Amministratore Delegato di MR&Associati, sui primi passi del nuovo esecutivo e sulla particolarità della campagna elettorale appena conclusa.

Evidentemente, il principale esito di questa tornata elettorale è la conservazione da parte del centro-destra della Lombardia, con l’uscente Attilio Fontana, e la conquista del Lazio dopo dieci anni di governo di centro-sinistra, con Francesco Rocca. Un ottimo risultato che consente al governo e alla sua leadership di rafforzarsi: più che una vittoria di Fratelli d’Italia si è trattata, infatti, di una conferma per il Presidente del Consiglio che si attesta, in termini di gradimento, sempre avanti al proprio partito.

Che durante i primi cento giorni – la cosiddetta “luna di miele” – i governi manifestino sempre una buona sintonia con il vertice della squadra di governo, è un fattore fisiologico che si conferma anche nel caso meloniano. L’esecutivo ha infatti ottenuto un riscontro elettorale positivo e la riprova delle difficoltà dell’opposizione, ancora una volta divisa e frastagliata, incapace di ragionare all’unisono anche in momenti di necessità. Coniugare il primato di Meloni con la riduzione di Salvini e Berlusconi a jr partner continua a costituire la sfida di quest’esperienza di governo.

Il consenso, come noto, è intrinsecamente effimero: mantenerlo dipende certamente dalle scelte compiute ma non soltanto. L’ottimo risultato di Giorgia Meloni in queste elezioni, per esempio, si è contraddistinto per due elementi: la scarsa attenzione mediatica e social e la sua limitata presenza sui territori, specialmente in Lombardia (a differenza di quanto fatto dalla Lega). Con soli due post, Meloni si può dire non abbia proprio fatto campagna elettorale, in particolar modo se pensiamo non solo a quanto i social siano centrali nella comunicazione politica meloniana, ma anche all’appeal e alla reach che hanno i contenuti da lei pubblicati sui social grazie al suo seguito di oltre 7 milioni di follower – di cui almeno 1 milione sulla Lombardia e sul Lazio. Perciò si è effettivamente trattato di una scelta.

Qual è, dunque, la ratio di questo modus operandi? Probabilmente potremmo pensare ad un mix di fattori tra cui, principalmente, il breve lasso di tempo intercorso dalle elezioni politiche, che ha garantito una continuità con le tematiche nazionali e un traino verso il voto e le urne, e il fatto che per Meloni questa sia stata la prima campagna elettorale in cui è stata chiamata in vesti istituzionali, non come un leader di opposizione né come un candidato in cerca di consenso, per sé o per il partito.

Ma all’interno di una campagna elettorale social che si è rivelata nel complesso poco attrattiva da un punto di vista grafico e creativo (paradossale considerato il passaggio da social network a social entertainment in atto) e scarsamente pianificata, in cui i candidati consiglieri hanno realizzato campagne più evolute dei candidati governatore, cosa è risultato elettoralmente premiante se non lo è stato la comunicazione social?

Principalmente due fattori: la novità e le reti. La prima è l’effetto novità, che consiste nella capacità di alcune giovani nuove figure di incarnare direttamente le esigenze della propria generazione. Le seconde vanno oltre alle organizzazioni partitiche che conosciamo, hanno anche forme associative, fisiche e personali che, in perfetta simbiosi con il metodo delle preferenze, ha effettivamente trascinato alle urne gli elettori, contingentando almeno un minimo la sempre più diffusa astensione – che si è attestata attorno al 60% (in Lombardia si presenta ai seggi il 41,67% degli aventi diritto, nel Lazio solo il 37%).

Astensione che si può imputare alla disaffezione alla politica, ma anche ad un’evidente mancanza di competitività elettorale del centro-sinistra che – potremmo dire – ha scelto di non prendere parte alla competizione, né nel Lazio né in Lombardia, replicando di fatto il comportamento alle politiche di settembre e disincentivando i propri elettori al voto. Chiaro deve comunque essere che l’unione e la compattezza del centro-sinistra non sarebbero bastate per vincere. Perché, anche se abbiamo assistito ad una generalizzata “corsa del gambero” da parte di tutte e due le coalizioni, il centro-destra ha nel complesso perso 1 milione di voti rispetto al 2018 mentre un potenziale centro-sinistra unito (che si sarebbe potuto estendere da Azione ai 5 Stelle, passando per il PD), avrebbe perso 1 milione e 200 mila voti, rimanendo comunque sotto di 300 mila voti.

Come notato da Lina Palmieri sul Sole24Ore, in questa campagna elettorale l’unico punto di incontro del centro-sinistra è stata la contrarietà all’autonomia differenziata e quindi la necessità di salvaguardare i poteri statali. Tematica, peraltro, assente dal dibattito pubblico degli ultimi tre mesi, tornata ad essere oggetto di interesse solo nelle ultime settimane per l’approvazione in Consiglio dei ministri del ddl Calderoli. Lo stesso Matteo Salvini, spesso accusato di essere affetto da “annuncite” – presunta patologia che lo portava ad annunciare vittoriosamente l’introduzione di provvedimenti prima ancora che fossero approvati, in questa occasione ha atteso l’effettiva approvazione prima di rivendicare il successo programmatico leghista.

Come primo banco di prova, le recenti elezioni regionali sono state indubbiamente un successo per il Governo Meloni. Scaduti i primi 100 giorni, lontano dai riflettori elettorali e dalla frenesia delle campagne, lontano dei comizi, dalle piazze e dalla pragmatica e imperativa necessità di fare fronte comune, la leadership meloniana sarà in grado di mantenere e ampliare il proprio consenso, salvaguardando la posizione degli alleati?