Il confine tra la «realtà» e la sua riproduzione virtuale è oggi molto labile. L’uso spregiudicato di strumenti di «sovversione» della realtà, in grado di rendere verosimile ciò che non lo è, minaccia di «inquinare» la società e il mercato.
A quali strategie ricorrere? Quali soluzioni approntare? FB Bubbles lo ha chiesto a Massimiliano Panarari, docente di campaigning e organizzazione del consenso presso la Luiss.
Nella prima settimana di ottobre è stato pubblicato un primo rapporto sulla diffusione dei video deepfake, a cura della società di cybersecurity Deeptrace. Il primo dato che se ne ricava è la forte crescita di questo fenomeno: il numero di video deepfake oggi disponibili risulta infatti raddoppiato rispetto a dicembre 2018. Quali rischi comporta la crescita di questo fenomeno per il nostro panorama informativo e la sua credibilità? A quali rimedi è possibile ricorrere?
Questa nuova tecnologia, che è collegata all’intelligenza artificiale e all’utilizzo del machine learning, rischia anzitutto di rendere ancora più labile il confine tra la «realtà» e la sua riproduzione per via tecnologica ovvero tra gli ambiti dell’oggettività, del simulacro e della verosimiglianza. Se un video del genere risulta così verosimile da apparire reale entriamo in un contesto nel quale la capacità di giudizio dei cittadini, la «strutturazione» dell’opinione pubblica e il dibattito politico, vengono profondamente inficiati. In secondo luogo, questa tecnologia – utilizzata nell’ambito delle guerre di informazione e contro-informazione, dai servizi segreti di nazioni antioccidentali, e nell’ambito dello spionaggio e delle guerre industriali – può provocare danni enormi per l’economia e i «sistemi paese». L’enorme capacità tecnologica, in continuo accrescimento e mutamento, consente infatti a questi video di essere sempre più indistinguibili dal vero e dalla percezione che le persone hanno del contesto che li circonda. Si determinano così quelle condizioni di inquinamento del giudizio e delle valutazioni dei cittadini che possono per l’appunto contribuire alla distorsione del dibattito politico. Si pensi a questo riguardo, considerando i soli social media, all’esperienza della brexit.
Relativamente ai rimedi si tenga anzitutto conto di un presupposto: da tre decenni a questa parte la velocità dell’innovazione tecnologica è ampiamente superiore alla possibilità del legislatore di normare. Si situa qui un primo gap rilevante; e laddove questo problema venisse ovviato è comunque lecito dubitare della sua completa efficacia. Ciò non toglie che sia opportuno introdurre sanzioni forti per chi trasgredisce ai doveri di “buona fede” e trasparenza del dibattito pubblico e per chi va ad “inquinare” il “mercato”, determinando conseguenze gravi quali la competizione indebita o la concorrenza sleale. Ma non basta comunque. E risulta cruciale, ai fini della risoluzione dei problemi anzidetti, l’educazione dei cittadini / elettori all’utilizzo delle tecnologie. Uno sforzo a cui dovrebbe contribuire anche il “privato” maggiormente consapevole e responsabile. Vi è poi un problema di “corpi intermedi”, di alfabetizzazione digitale, di “coscientizzazione” all’uso delle tecnologie digitali e all’esercizio del giudizio critico nei loro riguardi, che investe invece le istituzioni. Se la cultura tipografica e alfabetica è stata il fondamento dell’educazione scolastica, è evidente che oggi non si può lasciare l’utilizzo delle tecnologie al far west, al caos e soprattutto ai manipolatori. Per queste ragioni bisogna costruire con i soggetti privati forme di concertazione, di sinergia, affinché quanti hanno a cuore un contesto civico ed economico basato su loyalty e responsiveness, possano dire la propria ed essere utilmente coinvolti.
In una società fortemente mediatizzata come quella odierna, in cui vengono costantemente realizzati nuovi contenuti sui social-media, per le imprese basta un singolo passo falso – vero o presunto – per offuscarne la reputazione. Eppure, al momento dell’acquisto di un prodotto sempre maggiore rilievo riveste il profilo reputazionale dell’impresa. Come si costruisce oggi la fiducia del pubblico e come si può preservare nell’epoca delle fake news?
Dovrebbe essere evidente, e il fatto che non lo sia è parte del problema, che il funzionamento di un’economia sempre più reputazionale trae beneficio da un contesto di “serenità” e stabilità politica, e anche dal ripristino di una vita pubblica e informativa che non sia perennemente soggetta a dei tentativi di manipolazione. La dimensione della “serenità” nostro malgrado è oggi perduta per diverse ragioni, non ultima l’azione di “demagoghi”, “pifferai magici” e soggetti vari che intervengono per produrre destabilizzazione. Dal momento che l’evoluzione dei modelli di marketing si è spinta ben oltre la brandizzazione e la costruzione di community di consumatori, raggiungendo le soglie della responsabilizzazione di produttori e aziende, in termini di commitment sociale, e di crescita del giudizio personale quale “molla” per l’acquisto da parte dei consumatori, bisogna che a essa si accompagni anche una crescita di consapevolezza. Una condizione nella quale cioè il consumatore non sia influenzato da operazioni manipolatorie e abbia a disposizione maggiori informazioni: una forma di loyalty rispetto alle informazioni che riceve a proposito del bene aziendale, del prodotto o della merce che gli viene proposta. Del resto, è interesse comune salvaguardare il “mercato” da iniziative che lo turbino o che producano competizione sleale.
Analogamente occorrono forme di consorzio pubblico-privato per le fake news e la disarticolazione manipolativa del dibattito pubblico. Ben vengano, quindi, osservatori, luoghi di confronto o anche authority in grado di monitorare e intervenire. Si badi: non in termini censori, che è il grande problema, ma con l’obiettivo di strutturare maggiormente un’ecologia sociale dei media in funzione della quale sensazionalismo e alterazione del dato di fatto non possano prevalere.
In «Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi» (edito da Marsilio) ha scritto che tratto distintivo delle «narrazioni populiste e sovraniste» è la «veicolazione di una neolingua assertiva, manichea e dicotomica che vuole deliberatamente generare contrapposizioni», azzerando il dibattito «mediante concetti basici ed elementari». Le dinamiche di costruzione del consenso sembrano quindi risentire del mancato coinvolgimento nel dibattito pubblico di punti di vista esterni, siano essi di opinion leader o esperti: in questo scenario come si riconfigurano le strategie di advocacy?
L’odierno dibattito politico è contrassegnato dalla costante e programmatica delegittimazione dell’avversario, trasformato perennemente in nemico: una circostanza che non consente la costruzione di un confronto positivo, nel quale cioè gli “angoli siano smussati” e la tensione di tipo ideologico venga depotenziata. Non è una novità: è un pezzo strutturale della storia della politica. La specificità di questi nostri tempi risiede nel fatto che esiste quest’amplissimo ventaglio di strumenti di sovversione della realtà, generati dalle tecnologie, in grado di rendere verosimili cose che non lo sarebbero. Detto che la questione del riconoscimento reciproco è fondamentale e si è avversari e non nemici, occorre adoperarsi in primo luogo affinché la dialettica politica, pur dura e aspra, sia fondata su proposte e progetti e non sul character assassination dell’avversario.
Fondamentale risulta inoltre la mobilitazione cognitiva: una società più informata è una società più matura, consapevole, che si abbandona meno alla “polarizzazione”. Pubblico e privato in questo senso possono contribuire all’elevazione del tasso di education all’interno della società, irrobustendo la dotazione di strumenti critici.
Bisogna poi considerare la media logic del web 2.0, utilizzato dai gestori delle piattaforme: la profilazione pubblicitaria, che è la vera (e di fattol’unica forma di remunerazione), è tanto più efficace quanto più si lavora su sentiment basici come la rabbia, il rancore e la paura. Ovvero le emozioni che possono essere suscitate e innescate più facilmente. È chiaro, quindi, che se non si opera su questo livello la tendenza alla polarizzazione continuerà ad essere un elemento “strutturale” della vita pubblica, con le conseguenze che tutti viviamo.
Lo scenario fin qui delineato implica la necessità di ripensare le strategie di advocacy. Il livello di “inquinamento” della vita pubblica minaccia ormai la “strutturazione” della vita collettiva e, più in generale, la democrazia rappresentativa. Ne consegue che le stesse strategie per influenzarla, in termini corretti e legali risentano di un contesto nel quale va dissolvendosi quel poco che rimane del corpo sociale secondo i modelli a cui siamo stati abituati.
È necessaria quindi un’assunzione di responsabilità sociale: chi fa advocacy e chi ha ruoli pubblici dovrebbero sedersi attorno ad un tavolo per provare a correggere la rotta, sempre non si ritenga il superamento della democrazia rappresentativa la strada da intraprendere: ipotesi rispetto alla quale è doveroso dissentire. In estrema sintesi: l’advocacy oggi deve utilizzare in maniera meno violenta e meno virulenta i social. O altrimenti bisogna costruire quella che Vittorio Foa chiamava la “mossa del cavallo”: pensare forme alternative del quadro pubblico in cui si possano ripristinare delle modalità corrette di azione.